Decreto Legislativo 9 luglio 2003, n. 216 “Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.

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Il D.Lgs. n. 216/2003 ha recepito la direttiva 2000/78/CE stabilendo il divieto di discriminare al momento dell’assunzione e durante la vigenza del contratto di lavoro(sia nel settore pubblico sia in quello privato) in base:nnalla religione professata, alle convinzioni personali, alla presenza di un handicap, all’età, all’orientamento sessuale.nnL’articolo 3 delimita il campo di applicazione dello schema di decreto legislativo, secondo quanto stabilito dalla direttiva.nnIn particolare, il principio di parità di trattamento si applica a tutte le persone dei settori pubblici e privati, per quanto concerne l’accesso all’occupazione, al lavoro, all’orientamento e alla formazione professionale, l’occupazione e le condizioni di lavoro, l’affiliazione e le attività nelle organizzazioni di lavoratori e datori di lavoro o di altre organizzazioni professionali.nnSi fa, inoltre, salva tutta la normativa nazionale inerente le condizioni di ingresso,soggiorno ed accesso all’occupazione, all’assistenza e alla previdenza dei cittadini dei Paesi terzi e degli apolidi nel territorio dello Stato, la sicurezza e la protezione sociale, la sicurezza pubblica, la tutela dell’ordine pubblico e della salute, la prevenzione dei reati, lo stato civile e le prestazioni che ne derivano le forze armate limitatamente ai fattori di età e di handicap.nnSi prevedono, infine, alcuni casi in cui le differenze di trattamento non costituiscono atti di discriminazione ai sensi di quanto stabilito nell’articolo 2.nnL’art. 3, 3° co. introduce un’eccezione al divieto di discriminare che non trova però alcun riscontro nel testo della direttiva 2000/78/CE. Il testo della norma recita:nn«Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima.Parimenti, non costituisce atto di discriminazione la valutazione delle caratteristiche suddette ove esse assumano rilevanza ai fini dell’idoneità allo svolgimento delle funzioni che le forze armate e i servizi di polizia, penitenziari o di soccorso possono essere chiamati ad esercitare»nnLa formulazione della norma sembra ben distante dal corrispondente testo dell’art.4, 1° co., della direttiva 78/2000/CE:nn«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa,purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato»nnLe perplessità circa la correttezza dell’intervento normativo di recepimento della direttiva europea poi cresce se si analizza il 23° considerando della stessa:nn«In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all’età o alle tendenze sessuale costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato.nnTali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione»nnDalle suddette precisazioni si trae, da un lato l’esistenza di un principio di tipicità,per cui è il legislatore e non il datore di lavoro (come sembra suggerire l’interpretazione dell’art. 3, 3° co. D.Lgs. 216/2003) a dover indicare in quali casi si possa far eccezione al principio di non discriminazione; dall’altro una connotazione della fattispecie fortemente oggettiva, che non lascia alcun margine di discrezionalità al datore di lavoro, circa l’idoneità del lavoratore ad essere assunto o a continuare a svolgere le mansioni affidategli.nnL’ articolo 4 disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti. Innanzi tutto, si apporta una modifica all’articolo 15, comma 2, della legge n. 300 del 1970, recante «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento». In tale modo, si rendono nulli gli atti e i patti del datore di lavoro diretti a fini di discriminazione anche per motivi di handicap, di età, di orientamento sessuale o di convinzioni personali.nnRelativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti, al fine di creare strumenti omogenei di tutela, si prevede l’applicazione dell’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del decreto legislativo n. 286 del 1998. Tale articolo prevede una particolare azione civilenncontro la discriminazione, dotata di snellezza ed efficacia.nnSi prevedono, inoltre, altri strumenti correlati: la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione previsto dal codice civile e dal decreto legislativo n. 165 del 2001 l’operatività dell’articolo 2729 del codice civile in materia di presunzioni, la possibilità per il giudice, di risarcire il danno non patrimoniale, di ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, nonché la rimozione degli effetti e di ordinare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate di tenere conto, al fini della liquidazione dal danno, che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività, di ordinare la pubblicazione della sentenza.nnCirca il regime delle prove, la previsione di una radicale inversione dell’onere della prova è apparsa non strettamente conforme ai principi del nostro ordinamento giuridico.nnPosto che nel nostro sistema il principio dell’inversione della prova esiste solo in alcune precise e tassative ipotesi previste dalla legge (articolo 1988 del codice civile),la legge comunitaria ha optato più genericamente, per un regime di prova presuntiva per il quale non vi è una vera e propria inversione dei carichi probatori, ma semplicemente un principio di favore per la parte debole che agisce in giudizio: a fronte di elementi di fatto idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenzanndi atti o comportamenti discriminatori, il convenuto viene onerato della prova liberatoria circa l’insussistenza della discriminazione.nnViene introdotto, così, un regime bilanciato per il quale, pur non esonerando espressamente il ricorrente dall’onere della prova, si considera necessaria e sufficiente la prova presuntiva, con l’ausilio dei dati statistici, i quali, come è stato più volte affermato dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee, rappresentano un importante meccanismo nell’accertamento della sussistenza delle discriminazioni indirette.nnL’articolo 5 legittima le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente rappresentative ad agire in giudizio in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, anche nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione.nnL’articolo 6 prevede la redazione da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali di una relazione contenente le informazioni sullo stato di attuazione delle disposizioni del presente decreto da trasmettere alla Commissione europea.nnL’articolo 7 precisa che l’applicazione del decreto legislativo non comporta oneri a carico del bilancio dello Stato.

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