Definire “l’eguaglianza” attraverso le pronunce della Corte Costituzionale.

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Sin dai primi anni di attività della Corte Costituzionale, il parametro di cui all’art. 3 della Costituzione, ha assunto un ruolo di preminenza nei giudizi di legittimità costituzionale,e ciò in quanto, come affermato nella sentenza n. 25 del 1966, “è principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura”, nonché“canone di coerenza … nel campo delle norme del diritto”(Corte Cost. n. 204 del 1982).nnIn realtà, la lettura che la giurisprudenza della Corte ha dato del principio di eguaglianza- inteso in senso sia formale, quale regola della forza e dell’efficacia della legge, sia sostanziale quale regola del contenuto della stessa, ha portato a enucleare anche un generale principio di “ragionevolezza”. Alla luce di questo, la legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali e in maniera razionalmente diversa situazioni diverse, con la conseguenza che la disparità di trattamento trova giustificazione nella diversità delle situazioni disciplinate.nn“Il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni”(sent.n. 15 del 1960), poiché “ l’art. 3 Cost. vieta disparità di trattamento di situazioninnsimili e discriminazioni irragionevoli” (sent. n. 96 del 1980).nnIl principio in oggetto “deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento,quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione” (sent. n. 3 del 1957), con la conseguenza che il principio risulta violato “quando di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee,si ha una disciplina giuridica differenziata determinando discriminazioni arbitrarie ed ingiustificate” (sent. n. 111 del 1981).nnSe così è, se il giudizio di uguaglianza postula l’omogeneità delle situazioni messe a confronto, “non può essere invocato quando trattasi di situazioni intrinsecamente eterogenee” (sent. n. 171 del 1981), “quando si tratti di situazioni che, pur derivanti da basi comuni, differiscono tra loro per aspetti distintivi particolari” (sent n. 100 del 1976).nnPertanto, il giudizio secondo l’art. 3, si articola in due momenti.nnIl primo destinato a verificare la sussistenza di omogeneità fra le situazioni poste a confronto, “quel minimo di omogeneità necessario per l’instaurazione di un giudizio di ragionevolezza” (sent. n. 209 del 1988); il secondo subordinato all’esito affermativo del precedente, destinato a stabilire se sia razionale o meno la diversità di trattamentonnpredisposta per le stesse dalla legge.nnSe infatti, “ la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore” (sent. n.3 del 1957), tale discrezionalità non può trascendere i limiti stabiliti dal primo comma dell’articolo in esame.nnQuindi, “ si ha violazione dell’art.3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche” (sentenza n. 34 del 2004).nnPer quanto concerne l’ambito soggettivo di applicazione del suddetto principio, la Corte ha costantemente ritenuto la valenza generale del medesimo.nnCome specificato dalla sentenza n. 25 del 1966, il principio di eguaglianza vieta che la legge ponga in essere una disciplina discriminatoria non giustificata,e questo indipendentemente dalla natura e dalla qualificazione dei soggetti ai quali vengononnimputate.nnIl Principio non opera diversamente qualora vengano in considerazione “soggetti diversi dall’uomo”. Pertanto, la Corte ha ritenuto che il disposto de quo valga anche nei confronti delle persone giuridiche, dell’associazioni, dello Stato.nnLa graduale ma notevole evoluzione che il Principio ha subito nel corso degli anni ha portato ad un sempre più marcato riconoscimento della parità fra cittadini di sesso maschile e di cittadini di sesso femminile.nnCosì, per la Corte nel 1958 è “naturale che pur avendo posto il precetto dell’uguaglianza giuridica delle persone dei due sessi, i costituenti abbiano ritenuto che restasse al legislatore ordinario una qualche sfera di apprezzamento nel dettare le modalità di applicazione del principio, ai fini della migliore organizzazione e del più proficuo funzionamento dei diversi uffici pubblici, anche nell’intento di meglio utilizzare le attitudini delle persone” (sent. n. 56 del 58).nnL’art. 3 Costituzione, “che tende ad escludere che privilegi e disposizioni discriminatorie tra i cittadini, prende in considerazione l’uomo e la donna come soggetti singoli,che nei rapporti sociali godono di eguali diritti ed eguali doveri.nnEsso tutela la sfera giuridica della donna ponendola in condizioni di perfetta eguaglianza con l’uomo rispetto ai diritti di libertà, alla immissione della vita pubblica, alla partecipazione alla vita economica ed ai rapporti di lavoro, ….” (sentenza n. 126 del 1993).nn

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